
Kenya
Un viaggio che mi ha cambiato per sempre
Ascoltami
Se preferisci, puoi ascoltare la mia voce che legge questo racconto, come se fosse un audio libro o un podcast.
La musica è da sempre una mia grande compagna di viaggio, ascoltare la musica giusta nel giusto contesto può creare delle emozioni inaspettate. Ecco perchè ho creato una playlist che puoi ascoltare mentre leggi i miei racconti. Ti invito a cliccare “play” su questa traccia di Hans Johnson - un compositore che adoro e che ha dedicato alcune sue composizioni all’Africa - perchè ti faccia da colonna sonora per questi racconti, come lo è stata per me durante questo viaggio.
Le donne Samburu
La mattina abbiamo fatto colazione, sapendo che di li a poco ci sarebbe venuto a prendere qualcuno per portarci nel villaggio delle donne.
Non sapevamo però che a venire a prenderci sarebbero state proprio loro.
Tra una chiacchiera e l’altra vediamo spuntare dai cespugli che dividevano la nostra struttura dal loro villaggio, un gruppo di donne avvolte in teli di tutti i colori. Ci azzittiamo di colpo, loro ci guardano e poi mentre noi ci raggruppiamo tutte insieme loro iniziano a camminare verso di noi.
Una delle donne intona un canto che inizialmente sembrava più un urlo, e a seguire tutte le donne iniziano a cantare. Delle voci dolci e squillanti.
Le persone sono cambiate. La loro fisionomia ora è diversa: sono quasi tutti molto alti e magri, vestiti con dei teli rossi a quadri o strisce nere, hanno una lancia o un bastone molto lungo tra le mani. Le donne hanno il collo ricoperto da collane enormi di perline coloratissime e i capelli cortissimi.
Sono i Maasai o i Samburu, difficile da riconoscere la differenza perchè molto simili tra loro sia sotto forma di fisionomia che di stile.
Apro totalmente il finestrino e i miei capelli vengono risucchiati da un turbine di vento della macchina in movimento, mi sporgo fuori. Non posso credere a ciò che i miei occhi stanno vedendo. A giudicare dai loro sguardi che incrociano il mio però, credo che il sentimento sia ricambiato. Stavamo passando accanto a delle donne che ci guardavano con uno sguardo molto serio quando mi sono resa conto che anche il mio sguardo lo era, ma questo non significava che fossi intimidita o infastidita, anche se da fuori forse poteva sembrare che lo fossi.
Così mi sono affrettata a modificare la mia espressione, accennando un sorriso mentre guardavo negli occhi una donna che stava camminando da sola sul ciglio della strada sterrata che delimitava il villaggio, avvolta nel suo telo colorato e drappeggiata di perline intorno al collo.
E lei, semplicemente, ha seguito la mia espressione, allargando le sue labbra in un sorriso che mi ha mostrato i suoi denti. Le ho fatto un cenno con la mano e ci siamo allontanate l’una dall’altra.
A quel punto era difficile sopprimere il sorriso stampato sulla mia faccia e cosi l’ho portato con me per tutto questo viaggio, continuando a sorridere a chiunque passasse davanti al mio sguardo e sorprendentemente ho ricevuto tantissimi sorrisi in cambio.
I bambini erano felicissimi di salutarci, muovendo le loro manine nell’aria, urlando cose incomprensibili.
Ed è così che siamo state accolte nella nostra destinazione: una struttura molto spartana fatta di piccole casette tonde con il tetto in paglia che affacciavano su quello che una volta era un fiume molto grande ma che al momento era solo una scavatura nella sabbia con dei piccoli ruscelli d’acqua fangosa che gli passavano attraverso.
Finalmente il nostro van si ferma, Henry e Anthony, aprono la porta scorrevole e ci lasciano scendere e noi in preda all’euforia e all’emozione vissuta nelle ultime ore di viaggio ci riversiamo fuori dalle macchine, dirette a guardare l’orizzonte e quello che i nostri occhi stavano per mettere a fuoco era qualcosa di incredibile: c’è un elefante proprio la davanti al villaggio, che sta cercando di avvicinarsi al fiume.
Al suo seguito ci sono dei ragazzi locali che lo rincorrono tirandogli pietre e bastoni cercando di cacciarlo.
E ci riescono.
Vedendo quella scena ho provato pena per l’animale, mi è sembrato un gesto veramente cattivo. Dovevo ancora conoscere le motivazioni dietro a quell’atto (e le avrei scoperte il giorno seguente) ma la verità è che li ho scoperto una cosa a cui non avevo mai pensato: gli uomini e gli animali convivono nella savana. Esattamente come gli animali proteggono il proprio territorio, anche gli umani devono farlo perchè quando non lo fanno, gli elefanti (ad esempio, ci raccontavano i ragazzi del posto) entrano nei loro villaggi, calpestando qualunque cosa, spaccando le recinzioni, mangiando le verdure che con fatica crescono nella siccità dei loro orti.
Ognuno cerca di sopravvivere al meglio nella Savana.
Lasciate le nostre cose nelle stanze e mangiato il cibo locale per cena, un mix di riso, verdure e carne, ci siamo ritrovate intorno ad un grande falò.
Eravamo stanche ma cariche di una voglia di vivere incredibile.
Rimaste per un pò il silenzio ad osservare i giochi che quelle fiammelle creavano con il vento e il rumore della legna che scricchiolava, ho deciso di rompere il silenzio facendo una domanda:
“Cosa vi ha portato ad intraprendere questo viaggio?”
Ha seguito ancora qualche secondo di silenzio, alcune sembravano pensierose, altre insicure se essere le prime a rispondere finchè una delle ragazze decide di rompere il ghiaccio e raccontarci la sua storia davvero toccante che per privacy non vi racconterò, ma di cui voglio dirvi la frase che ci ha detto e che mi ha fatto venire la pelle d’oca in quell’istante: “non aspettate mai, non rimandate, state con le persone a cui volete bene, non sprecate tempo… perchè il tempo non torna indietro mai”. Aveva perso qualcosa di molto importante.
Ed è così vero. Questo viaggio è stato la dimostrazione che quelle parole erano reali. Bastava così poco per perderci un viaggio così immenso, bastava dire no, prese dall’insicurezza o dalla paura di spendere quei risparmi, dalla tossicità di una relazione di coppia o genitoriale che non avrebbe appoggiato o chissà quale altra motivazione… e invece noi avevamo detto tutte di si.
Io in primis avevo detto si quando mi era stato proposto il viaggio mesi prima e avevo deciso di condividerlo con tante altre anime avventurose.
Però quante volte diciamo no? Quante volte il coraggio non arriva nel momento giusto e quante possibili avventure ci precludiamo senza nemmeno saperlo?
Eravamo la, intorno ad un fuoco, nel cuore della savana, al centro della Terra, sotto ad un cielo stellato, illuminate da una Luna chiarissima e per qualche ora abbiamo aperto il nostro cuore e abbiamo raccontato i nostri sogni, i nostri demoni e abbiamo scoperto di essere molto più simili di quanto potessimo immaginare.
Un momento di condivisione davvero potente, uno dei momenti che porterò nel cuore per sempre.
Quella sera sono entrata nel letto della casetta in cui dormivo, lo avevo coperto con la zanzariera ed ero rimasta a fissare il soffitto nel buio per un pò, troppo stanca per muovermi ma troppo gasata per dormire.
Ancora non lo sapevo, ma il giorno dopo sarebbe stato uno dei giorni più belli ed intensi della mia vita.
Il roadtrip è iniziato da Nairobi, che per chi come me non lo sapeva, è una grandissima città che conta più di 4 milioni di abitanti, ma non è stata la prima tappa di questo viaggio.
Abbiamo guidato otto ore nei nostri van per arrivare in quella che sarebbe stata la meta che - ancora non sapevo - mi avrebbe cambiato la vita. A guidare c’erano Anthony e Henry, due omoni Kenioti sui 30 anni, tanto grandi quanto dolci, che ci hanno scarrozzate per due settimane ascoltandoci parlare in italiano tra di noi durante i viaggi, cantare a squarciagola le peggio hit degli anni 2000, senza mai lamentarsi, anzi, a dire il vero erano divertitissimi..
Amo i roadtrip specialmente quando lungo il percorso lo scenario cambia e insieme cambiano anche la musica che ascolto, il mio umore e le mie sensazioni. Lasciare Nairobi è stato un sollievo, io e le grandi città non andiamo mai d’accordo nonostante poi ci sarei tornata e avrei vissuto un’esperienza incredibile di cui racconterò tutto qui di seguito.
La cosa che più mi disturba delle città è il non poter vedere l’orizzonte. Le vivo con un perenne sentimento di fomo (Fear Of Missing Out) che mi fa pensare che io stia potenzialmente perdendo qualcosa di molto bello al dilà dei muri e dei palazzi. Per non parlare dei rumori costanti e della puzza di smog che mi stancano proprio a livello mentale oltre che fisico.
E così lentamente ci siamo lasciate la grande città alle spalle… i palazzi lasciavano gradualmente il posto ad una lunga schiera di negozietti colorati di lamiera e cemento di fronte ai quali si trovavano persone sedute che semplicemente osservavano ciò che gli accadeva davanti agli occhi senza partecipazione, venditori di qualsiasi tipo di bene, pastori con pecore al seguito, asini sdraiati all’ombra dei banchi della frutta…
Seduta sul sedile del passeggero, mi perdevo tra gli scorci di vita di gente sconosciuta che per pochi istanti mi passava davanti. Chissà come si chiamano e cosa fanno, chissà come stanno e cosa pensano. Non mi era dato saperlo, potevo solo per un attimo scambiare una velocissima occhiata, potevo lasciarli guardare nei miei occhi mentre io guardavo nei loro e poi sparire per sempre.
Le foto seguenti sono scatti che ho fatto dal finestrino del van in corsa.
Lasciati anche i negozietti alle nostre spalle lo scenario è cambiato drasticamente: non c’erano più costruzioni ma piccole capanne fatte di sterco di mucca, una moschea molto appariscente spiccava perfettamente a contrasto con il panorama desertico e secco. Improvvisamente le donne qui indossavano il velo che copre il volto. Le pecore e gli asini erano stati rimpiazzati dai cammelli.
Stavamo attraversando una zona di influenza araba. Incredibile come nell’arco di pochissimi chilometri possa cambiare così tanto a livello culturale, per un attimo non sembrava più di essere in Kenya ma in Nord Africa o in Arabia Saudita.
È durato pochi minuti però, prima che ci lasciassimo ogni forma di civiltà alle spalle per entrare in una distesa infinita di deserto e alberi. Continuavo a ripetere alle mie compagne di van che quegli scenari che stavamo attraversando (chiaramente si parla prettamente di paesaggi naturali, non di strutture e persone) non erano poi così diversi dall’Australia.
Strade lunghissime, contornate da pianure infinite senza ombra di umano, il cielo che sembra essere immenso…
Sono in Africa.
Adesso davvero.
Sono al centro del mondo.
Sono sulla linea dell’equatore.
Sono in Africa.
Ma è stato proprio in quel preciso istante che l’Africa deve essersi sentita chiamata in causa dal paragone che le avevo fatto e così un pò come a dire “si eh, sono uguale all’Australia? Guarda qua allora, questo ce l’ha l’Australia?”
Davanti a me iniziano ad apparire una distesa di alberi di acacia e rimango a bocca aperta perchè li avevo visti solo nei film e nel Re Leone.“Ok Africa, forse hai ragione, questi non li avevo mai visti in Australia” penso…
Mi sento euforica.
Ma gli alberi di acacia non erano abbastanza, devo aver indispettito l’Africa perchè ha voluto provare la sua unicità nonostante le avessi appena dato ragione, e così dopo pochi secondi eccole, tra distese di steppa e alberi avvisto qualcosa di incredibile: le zebre.
Centinaia di zebre libere che passeggiano indisturbate. I miei occhi all’improvviso si riempiono di lacrime.
La terra che non sapevo di aver bisogno di visitare e dalla quale non sto riuscendo ad andare avanti.
Ferma in questi ricordi ancora freschissimi.
L’accoglienza della Savana
Una svolta a sinistra dalla strada principale, lunga e ripetitiva, e imbocchiamo uno sterrato che mi fa capire che siamo vicini alla nostra destinazione. Ecco quindi che guardando fuori dal finestrino inizio a rivedere segni di civiltà, piccole casette di bastoni e sterco con i tetti in paglia spuntano tra la steppa.
Le persone sono cambiate. La loro fisionomia è diversa: molto alti e molto magri, vestiti con dei teli rossi a quadri o strisce nere, hanno una lancia o un bastone molto lungo tra le mani. Le donne hanno il collo ricoperto da collane enormi di perline coloratissime e i capelli cortissimi.
Sono i Maasai o i Samburu, difficile da riconoscere la differenza perchè molto simili tra loro sia sotto forma di fisionomia che di stile.
Apro totalmente il finestrino e i miei capelli vengono risucchiati dal turbine del vento della macchina in movimento, mi sporgo fuori. Non posso credere a ciò che i miei occhi stanno vedendo. A giudicare dai loro sguardi che incrociano il mio però, credo che il sentimento sia ricambiato. Stavamo passando accanto a delle donne che ci guardavano con uno sguardo molto serio quando mi sono resa conto che anche il mio sguardo lo era, ma questo non significava che fossi intimidita o infastidita, anche se da fuori forse poteva sembrare che lo fossi.
Così mi sono affrettata a modificare la mia espressione, accennando un sorriso mentre guardavo negli occhi una donna che stava camminando da sola sul ciglio della strada sterrata che delimitava il villaggio, avvolta nel suo telo colorato e drappeggiata di perline intorno al collo.
E lei, semplicemente, ha seguito la mia espressione, allargando le sue labbra in un sorriso che mi ha mostrato i suoi denti. Le ho fatto un cenno con la mano e ci siamo allontanate l’una dall’altra.
A quel punto era difficile sopprimere il sorriso stampato sulla mia faccia e cosi l’ho portato con me per tutto questo viaggio, continuando a sorridere a chiunque passasse davanti al mio sguardo.
I bambini erano felicissimi di salutarci, muovendo le loro manine nell’aria urlando cose incomprensibili.
Ed è così che siamo state accolte nella nostra destinazione: una struttura molto spartana fatta di piccole casette tonde con il tetto in paglia che affacciavano su quello che una volta era un fiume molto grande ma che al momento era solo una scavatura nella sabbia con dei piccoli ruscelli d’acqua fangosa che gli passavano attraverso.
Finalmente il nostro van si ferma, Henry e Anthony, aprono la porta scorrevole e ci lasciano scendere e noi in preda all’euforia e all’emozione vissuta nelle ultime ore di viaggio ci riversiamo fuori dalle macchine e ci siamo dirette a guardare l’orizzonte perchè quello che i nostri occhi stavano osservando era qualcosa di incredibile: c’è un elefante proprio la davanti al villaggio, che sta cercando di avvicinarsi al fiume. Al suo seguito ci sono un branco di bambinetti locali che lo rincorrono tirandogli pietre e bastoni cercando di cacciarlo. E ci riescono.
Sembrerà un gesto cattivo descritto così ma la verità è che ho scoperto una cosa che non avevo mai immaginato: gli uomini e gli animali convivono nella savana, ed esattamente come gli animali proteggono il proprio territorio, anche gli umani devono farlo perchè quando non lo fanno gli elefanti (ad esempio, ci raccontavano i ragazzi del posto) entrano nei loro villaggi, calpestando qualunque cosa, spaccando le recinzioni, mangiando le verdure che con fatica crescono nella siccità dei loro orti.
Lasciate le nostre cose nelle stanze e mangiato il cibo locale per cena, un mix di riso, verdure e carne, ci siamo ritrovate intorno ad un grande falò.
Eravamo stanche ma cariche di una voglia di vivere incredibile.
Rimaste per un pò il silenzio ad osservare i giochi che quelle fiammelle creavano con il vento e il rumore della legna che scricchiolava, ho deciso di rompere il silenzio facendo una domanda:
“Cosa vi ha portato ad intraprendere questo viaggio?”
Ha seguito ancora qualche secondo di silenzio, alcune sembravano pensierose, altre insicure se essere le prime a rispondere finchè una delle ragazze decide di rompere il ghiaccio e raccontarci la sua storia davvero emozionante che per privacy non vi racconterò, ma di cui voglio dirvi la frase che ci ha detto e che mi ha fatto venire la pelle d’oca in quell’istante: “non aspettate mai, non rimandate, state con le persone a cui volete bene, non sprecate tempo… perchè il tempo non torna indietro mai”. Lei aveva perso una persona molto importante.
Ed è così vero. Questo viaggio è stato la dimostrazione che quelle parole erano reali. Bastava così poco per perderci un viaggio così immenso, bastava dire no, prese dall’insicurezza o dalla paura di spendere quei risparmi, dalla tossicità di una relazione di coppia o genitoriale che non avrebbe appoggiato o chissà quale altra motivazione… e invece noi avevamo detto tutte di si.
Io in primis avevo detto si quando mi era stato proposto il viaggio mesi prima e avevo deciso di condividerlo con tante altre anime avventurose.
Però quante volte diciamo no? Quante volte il coraggio non arriva nel momento giusto e quante possibili avventure ci precludiamo senza nemmeno saperlo?
Eravamo la, intorno ad un fuoco, nel cuore della savana, al centro della Terra, sotto ad un cielo stellato, illuminate da una Luna chiarissima e per qualche ora abbiamo aperto il nostro cuore e abbiamo raccontato i nostri sogni, i nostri demoni e abbiamo scoperto di essere molto più simili di quanto potessimo immaginare.
Un momento di condivisione davvero potente, uno dei momenti che porterò nel cuore per sempre.
Quella sera sono entrata nel letto della casetta in cui dormivo, lo avevo coperto con la zanzariera ed ero rimasta a fissare il soffitto nel buio per un pò, troppo stanca per muovermi ma troppo gasata per dormire.
Ancora non lo sapevo, ma il giorno dopo sarebbe stato uno dei giorni più belli ed intensi della mia vita.
Le donne Samburu
La mattina abbiamo fatto colazione, sapendo che di li a poco ci sarebbe venuto a prendere qualcuno per portarci nel villaggio delle donne.
Non sapevamo però che a venire a prenderci sarebbero state proprio loro.
Tra una chiacchiera e l’altra vediamo spuntare dai cespugli che dividevano la nostra struttura dal loro villaggio, un gruppo di donne avvolte in teli di tutti i colori. Ci azzittiamo di colpo, loro ci guardano e poi mentre noi ci raggruppiamo tutte insieme loro iniziano a camminare verso di noi.
Una delle donne intona un canto che inizialmente sembrava più un urlo, e a seguire tutte le donne iniziano a cantare. Delle voci dolci e squillanti.
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Man mano che si avvicinavano a noi il loro canto mi pervadeva tutto il corpo, sentivo la vibrazione della loro voce entrare nelle mie gambe, nel mio torace, fino ad arrivare al mio cuore. Ed è stato in quell’istante che ho sentito la mia gola chiudersi e il cuore accelerare i battiti e la mia anima non è riuscita a sostenere tutto quell’amore e l’emozione che stavo vivendo da ormai quasi 24h senza avere il tempo di ripresa…
I miei occhi si sono riempiti di lacrime, al punto che le donne e i loro teli erano diventati solo dei cerchi colorati che si mischiavano tra loro come un caleidoscopio di immagini ed emozioni.
Io qualcosa di così forte non la sentivo da tanto… da quando a 21 anni mi sono trovata di fronte al Grand Canyon in uno dei viaggi più belli che ho fatto in solitaria nella mia vita.
Ma ho capito che la vita è un sali e scendi di momenti più o meno memorabili, alcuni istanti sono belli altri meno belli, ma i momenti di felicità - quella vera che ti riempie l’anima e il cuore e ti fa capire il senso della vita - sono davvero pochi. Ma sono quelli che vale la pena cercare e quelli per cui vale la pena vivere.
Ci sono voluti 12 anni per risentirmi davvero viva e connessa in una maniera viscerale al luogo e all’istante che stavo vivendo, ma ne è valsa l’attesa.
Ridevo, e aprendo le labbra in quel sorriso assaggiavo il sale delle mie lacrime.
Ero felice.
Le donne ci fanno cenno di seguirle e con movimenti fluidi del collo adornato dalle grandissime collane di perline che facevano dondolare sulle spalle, continuano a cantare mentre ci dirigono lentamente al loro villaggio.
Mi giro a guardare le mie compagne di viaggio per scoprire che non ero l’unica in un mare di lacrime che finivano nei nostri sorrisi, e guardandoci abbiamo condiviso un momento unico.
Al nostro arrivo nel villaggio le donne si fermano ma continuano a cantare, si girano verso di noi e iniziano a prenderci per mano una ad una, ci invitano a ballare con loro una danza che ovviamente non conoscevamo ma che in pochi istanti tra l’imbarazzo da parte nostra e le risate da parte loro vedendoci totalmente impedite, si è trasformata in una grande confusione. Era venuta Antonella a prendermi per mano, una donna con un sorriso bellissimo, una delle più allegre e scalmanate durante le danze. Mi aveva invitato a ballare con lei, che mi girava intorno cercando di spiegarmi i passi con i gesti. Saltavamo e inciampavamo, tentavo di copiare i suoi passi e ogni tanto Antonella urlava qualcosa come “sumbaaa” mentre con il loro ginocchio toccava il mio e rideva come una matta.
Erano bellissime, ipnotiche, genuine.
Saltavamo sulla terra arida del loro villaggio alzando un gran polverone, tutte insieme, tra le capanne e le caprette, ci guardavamo e scoppiavamo a ridere. Sono stati dei minuti indescrivibili di connessione profonda con delle perfette sconosciute, con delle donne che mai avrei pensato di poter conoscere, figuriamoci ballarci insieme o farci amicizia.
Poi le ragazze si fermano ed una di loro di nome Cintia, forse la più giovane, avvolta in un vestito verde smeraldo con una coroncina di perline che dalla testa le scendeva sulle guance, ci da il benvenuto.
Ci dice che lei è una delle poche a parlare inglese e ci spiega il significato della cerimonia a cui abbiamo appena assistito: era la cerimonia di benvenuto.
Infatti ho imparato che la popolazione Samburu come quella Maasai ha questa bellissima usanza di celebrare cose che per noi sono semplici normalità, come il dare il benvenuto o un addio, scegliere il nome di un bambino o diventare ufficialmente adulti, sacrificare un animale o fare pace quando si è litigato, attraverso dei canti e dei balli.
Cintia ci racconta di come nasce il villaggio di donne Samburu nel 1990 dalla fondatrice Rebecca.
A 15 anni Rebecca, come tante altre donne, ha subito l’infibulazione (una pratica oscena, per cui il clitoride e le piccole labbra vengono tagliate e poi le grandi labbra vengono cucite insieme, come segno di “purezza” di una donna, e per renderla incapace di provare piacere. Un segno per gli uomini che la ragazza è pura e quindi degna di diventare moglie) ed in seguito fu venduta per 17 mucche e obbligata a sposare un business man Keniota.
Nel 1990 i soldati inglesi avevano una base militare proprio in quel villaggio Samburu e vengono ricordati per i 1400 stupri che hanno commesso su bambine e donne locali.
Ma non è abbastanza perchè una volta stuprate, le donne non ricevevano alcun supporto dai loro mariti che in segno di punizione le picchiavano.
Rebecca cercò di cambiare la situazione battendosi per i diritti delle donne, e dopo essere sopravvissuta anche lei per miracolo a stupri dagli inglesi e botte da suo marito decide di creare il villaggio per sole donne insieme ad altre 15 donne-vittime locali.
Nasce così il villaggio delle Donne Samburu, un luogo in cui gli uomini non sono ammessi, e in cui le donne vivono insieme auto sostenendosi e proteggendosi. Questo villaggio è aperto a tutte le donne che necessitano accoglienza, e le donne sono libere di andarsene o tornare.
Questo racconto ci aveva lasciate tutte molto toccate, era calato un silenzio che contrastava il vociare e le risate che c’erano state fino a poco prima durante i balli… non sono storie che ti rendono felice, ma sono pur sempre storie reali, di cose che accadono nel mondo ancora oggi. E allora cosa si fa?
Si ignora per non starci troppo male?
Non credo. Penso in realtà che sapere queste cose possa arricchirci in molti modi.
L’ignoranza non è mai la soluzione in questi casi secondo me.
Cintia ci invita poi, con un sorriso che smorza il velo di tristezza che era calato tra noi, ad entrare in una delle loro capanne.
Speravo che lo facesse in realtà, ero molto curiosa!!
Le porte sono molto basse e così dobbiamo piegarci per entrare. Osservandole da fuori e sapendo che sono fatte di cacca di mucca e cenere il primo pensiero che si ha entrandoci è quello di prepararsi a tappare il naso per la puzza…
Inaspettatamente però l’interno della casa non puzzava affatto, nonostante non ci fossero finestre. L’unico odore che spiccava era quello del fumo di un fuocherello acceso nel centro della casetta che, ci ha spiegato Cintia, non usano per scaldare l’abitazione (fa già abbastanza caldo) ma per creare una patina di fumo che tiene lontani gli insetti. Certo, non è proprio la soluzione ideale se si parla di salute, ma a quanto pare funziona.
Al loro interno le casette sono divise da dei piccoli separatori fatti di rami e fogliame e hanno una stanza da letto dove si trova un materasso, una stanza in cui potersi rilassare dove a terra si trovano dei tappeti fatti con le pelli di capra e una stanza con una panca con su delle ciotole, qualche tanica d’acqua e tazze varie.
La visibilità all’interno delle casette era molto limitata comunque, non essendoci finestre, l’unica luce a farci vedere era quella degli spiragli che trapelavano tra una crepa e l’altra dei muri di sterco.
Uscite da quella capanna alcune delle donne ci aspettavano all’esterno sotto al sole delle 10 di mattina della Savana per portarci a raccogliere acqua e materiali per aiutarle a costruire una nuova casetta. Ci siamo quindi avviate tra le strade sterrate e i cespugli spinosi di acacia (diffusissimi in questa zona del Kenya e lo snack preferito dalle giraffe, ho scoperto in seguito) e abbiamo raggiunto il fiume di cui vi parlavo più su. Quello che ad oggi è il ricordo di un fiume che ha dato vita a tutti i villaggi circostanti e che ora è prosciugato.
Ma perchè era così secco?
Cintia ci spiega che sono quattro anni che non piove in quella zona, c’è siccità e un evento del genere non succedeva da più di trent’anni.
Tutti sappiamo ormai che il riscaldamento globale è reale - lo sapevamo anche prima che Greta Thunberg sacrificasse la sua infanzia e la sua vita in nome di un problema che a conti fatti riguarda prima di tutto la generazione dei grandi - e che questo comporta grandi sbalzi di temperature, stagioni esageratamente calde o fredde, troppa siccità o inondazioni estreme. Ma in pochi stanno vivendo davvero gli effetti di questo fenomeno.
Vivendo in zone miti come l’Italia è più difficile accorgersene, gli eventi eclatanti sono più limitati (e meno gravi).
Quando però vivi in zone più wild ed estese, vi assicuro che tutto questo si sente.
Negli ultimi anni ho vissuto sulla mia pelle alcuni degli avvenimenti più assurdi e violenti che io abbia mai visto in 33 anni di vita.
Mi sono ritrovata a guardare le fiamme di un incendio che ha bruciato, per mesi senza che riuscissero a spegnerlo, circa 240,000 chilometri quadrati di costa Australiana.
Solo un anno dopo tutta la pioggia che era sparita per praticamente due anni rendendo il suolo così secco da bruciare in quella maniera violenta, ha deciso di scendere e di non fermarsi per altrettanti mesi, rendendo il suolo talmente tanto pieno d’acqua che non riusciva più a drenarla fino a quando i fiumi si sono ribellati e la stessa terra che solo due anni prima stava bruciando è diventata un vero e proprio oceano. Le inondazioni hanno ricoperto interi paesi, uscivano solo i tetti delle case a più piani, il resto era tutto sotterrato sotto al fiume di acqua.
Tuttavia chi ha vissuto questi avvenimenti è stato bene o male aiutato dal governo che ha stanziato dei fondi per il recupero, dalla comunità di persone che si è fatta in quattro facendo volontariato e donando beni di prima necessità (ricordate quando ero andata ad aiutare la signora con il cane nella sua casa che era stata totalmente distrutta?).
Ma a chi vive nella Savana - e già di base arranca perchè non ha soldi ed è praticamente dimenticato da Dio (un Dio chiamato società comunque) - e basa la propria vita sulle risorse che la Terra gli fornisce, in primis l’acqua di un fiume che acquisisce il valore di acqua da bere (sebbene non sia potabile), acqua per lavare, cucinare, innaffiare gli orti ma soprattutto acqua che crea vegetazione, nonché cibo per le mucche e le pecore che sono due dei loro pochi cibi stabili… chi pensa a questa gente?
Dopotutto loro sono gli unici che non stanno contribuendo al riscaldamento globale: non hanno mezzi di trasporto, non hanno fabbriche, non costruiscono e non producono nulla oltre a quegli animali che mangiano, e vivono totalmente al ritmo della natura.
Eppure sono loro i primi a pagare davvero delle conseguenze delle nostre azioni.
Parlo di “nostre” perchè siamo noi che viviamo nel mondo privilegiato e ci permettiamo di muoverci ogni giorno utilizzando una macchina o aerei che inquinano come non ci fosse un domani, comprare vestiti e cose nuove con leggerezza ogni qualvolta ne abbiamo voglia (prodotti che hanno bisogno di risorse e quindi fabbriche che inquinano), cibi che vengono importati all’ordine del giorno, spedizioni di pacchi che volano sui nostri cieli, allevamenti intensivi di animali che producono la maggior parte del metano e via dicendo… tutte problematiche che aumentano l’effetto serra e quindi surriscaldano il pianeta.
Tornando a Samburu, quello che abbiamo visto, è la forza di donne che non si arrendono facilmente. Ci fanno allora vedere come raccolgono l’acqua per berla nonostante ce ne sia ben poca che scorre: iniziano a scavare sul letto del fiume facendo si che si trovi l’acqua sotto terra che piano piano con una tazza raccolgono e inseriscono in una delle taniche di plastica che hanno portato con loro, e che in seguito berranno. È acqua marrone, decisamente non potabile. Ovviamente loro essendo nate e cresciute con quell’acqua non si ammalano facilmente come accadrebbe a noi bevendo anche solo un sorso di quella tazza. Nonostante ciò comunque, non fa bene nemmeno a loro.
Mi guardo intorno e le donne sono tutte all’opera, alcune si lavano e lavano i loro bimbetti tutti terrosi, altre con un coltello molto grosso che hanno affilato un attimo prima di scendere, tagliano i rami di acacia e li ripuliscono dalle foglie e le spine. Altre ancora stanno tagliando e mettendo da parte delle foglie di palma che poco più tardi avrei scoperto a cosa servivano.
Inizialmente eravamo la in piedi come delle ebeti ad osservarle senza capire bene come poter aiutare e poi le donne ci hanno guardato e ci hanno invitato ad aiutarle. Ho levato le mie ciabatte e mi sono fiondata in acqua, dove ho iniziato ad aiutare a scavare la buca per raccogliere l’acqua, mi sono poi sciacquata braccia e gambe e sono andata ad aiutare la donna che raccoglieva le foglie di palma, lei le tagliava e me le passava, io le chiudevo in maniera ordinata e le tenevo mentre lei me ne passava velocemente altre.
La mattinata sarebbe potuta andare avanti per ore così, se non fosse stato per il fatto che mentre loro sono abituate e probabilmente predisposte per rimanere sotto il sole cocente del mezzogiorno sull’equatore, noi al contrario stavamo iniziando ad avere giramenti di testa, facce paonazze, fiato corto e due ragazze del gruppo avevano già da tempo sentito il bisogno di tornare su per ripararsi all’ombra e prendere un Polase. Credo che la nostra pelle pallida non sia stata progettata per grigliate sotto al sole per troppo tempo senza risentirne.
Così le donne, un pò divertite dalla nostra poca resistenza di qualcosa che per loro è pane quotidiano, hanno raccolto tutte le loro cose e in fila hanno iniziato a tornare intonando un canto, un’altra cerimonia, per ringraziare “Dio” di tutte le risorse che avevano appena preso: legna, foglie ed acqua.
Ed eccoci allora arrivate finalmente all’ombra di quella che è una nuova capanna in costruzione. La struttura e il tetto sono più o meno stati impostati, adesso quello che serve fare è riempire le pareti con i rami che avevano appena raccolto e pulito da tutte le spine, legandoli con delle fibre che di li a poco ci avrebbero insegnato a tirare fuori dalle foglie delle palme.
Mi sono inginocchiata insieme ad una donna giovane e una più anziana, nessuna delle due parlava inglese ed io ovviamente non dicevo una parola di Samburu (ad oggi conosco solo 8 parole in Swahili in tutto, che comunque è una lingua diversa), eppure la loro spiegazione era chiara, mi mostravano come sfibrare la foglia per tirarne fuori un cordoncino, come incastrate il ramo sotto terra e come intrecciarlo agli altri fissandolo con il cordoncino di palma, e via così, nell’arco di 20 minuti avevamo costruito circa 1m di parete in tre.
Alcune donne avevano preparato il composto per aggiustare le crepe sui tetti delle loro casette. Avevano mischiato la cacca di mucca con la cenere e l’acqua, l’avevano impastata con le loro mani e adesso la stavano spalmando sulle crepe per ricreare un tetto omogeneo.
Antonella sembrava molto seria, intenta in questo lavoro, finchè si è girata verso di noi con le mani tutte sporche e ha finto di venire a toccarci la faccia con un’espressione schifata e divertita. La sua risata contaggiosa ha seguito un mezzo urlo da parte nostra e siamo scoppiate tutte a ridere.
Antonella era la più simpatica e cabinista la in mezzo.
Aveva circa la mia età (ma nessuna delle donne sa davvero la propria età perchè nella loro cultura non si conta, e alla nascita non vengono segnate all’anagrafe) ma aveva già 5 figli, ma ad osservarla da fuori non sembrava una mamma, sembrava solo la loro sorella più grande. Scherzava e rideva costantemente.
Il potere dell’unione: le donne sono magia pura
Mentre lavoravamo osservavo il cielo limpido, azzurro, e ringraziavo di essere all’ombra di quella capanna in costruzione perchè non sarei riuscita a sopravvivere ancora tanto sotto al sole caldo. Ripensavo alle parole di Cintia quando diceva che da quattro anni non piove e il fiume è arido. Così un pò timidamente le chiedo - sperando di non fare una figuraccia o di dare per scontata una cosa che non è assolutamente così, avevo sempre paura di dire qualcosa che per la loro cultura potessero essere offensivo - se hanno una canzone-preghiera per attirare la pioggia.
Cintia sorride e annuisce ma aggiunge anche in tono un pò sconsolato “ma anche se a volte le nuvole si avvicinano qui, fanno un giro intorno al nostro villaggio ma poi si allontanano verso le montagne e piove la, ma non qua”.
Cade il silenzio per qualche istante e poi la più anziana dice una frase cantilenata con un tono di voce altissimo, e subito le altre la seguono. Sembrava come se lei stesse facendo delle preghiere, e le donne in risposta recitavano sempre lo stesso canto. Una, due, tre volte… la strofa era chiara, e così abbiamo iniziato a ripeterla anche noi. Stavamo cantando tutte insieme.
Era bello, sentire tutte le nostre voci unite, non sono sicura che stessimo dicendo le parole giuste, ma il tono e i suoni erano quelli e quando canti insieme a 30 persone in uno spazio di pochi metri quel canto ti entra nella cassa toracica, ti senti vibrare tutto il corpo, senti vibrare tutto ciò che è intorno a te, compreso il terreno e la capanna.
Abbiamo continuato a cantare per un pò finchè senza nemmeno rendercene conto un muro di nuvole era apparso dal nulla, e aveva creato una circonferenza buia intorno al villaggio. Arrivavano dalle montagne, proprio come aveva detto Cintia, infatti il villaggio era una pianura secca circondata da montagne che spiccavano in lontananza.
Le nuvole diventavano sempre più grandi e quello che fino a poco prima era un cielo azzurro acceso, aveva preso una tonalità più cupa.
Non potevo credere ai miei occhi, non smettevo di cantare e non lo facevano neanche le altre, ma mi sono guardata intorno e ho incrociato lo sguardo di una delle ragazze del mio gruppo e non ho potuto fare a meno di cogliere l’eccitazione nelle nostre espressioni.
Continuiamo a cantare e improvvisamente un vento fresco e violento inizia a soffiare smuovendo tutti i pennacchi delle palme che erano poggiate sul tetto della capanna in costruzione. Alcune donne si alzano di scatto e corrono a coprire i tetti delle loro casette con dei teloni di plastica sorretti da delle pietre pesanti.
Stava davvero succedendo? Pensavano davvero che avrebbe piovuto?
E poi, l’inconfondibile rumore: il rombo di un tuono in lontananza ha pervaso tutto il mio corpo esattamente come io sono stata pervasa dalla pelle d’oca e i miei occhi, ancora una volta, si sono riempiti di lacrime e il mio sorriso era sempre più largo.
Ho sempre creduto che queste leggende fossero appunto, solo leggende. Ma come la spieghi una cosa del genere? Come spieghi che non piove da 4 anni e quando 30 donne con culture e con storie totalmente diverse si uniscono sulla stessa terra cantando all’unisono il cielo risponde con così tanta velocità?
Come si fa a distinguere i casi della vita con le cose reali? Forse è da queste cose che nascono le leggende… forse in fondo non sono solo leggende.
Avevo appena non solo assistito ma anche partecipato ad un avvenimento che fino a quel momento non avrei mai creduto se non lo avessi davvero visto con i miei occhi.
Le donne allora ci dicono che devono organizzarsi qualora dovesse arrivare davvero la pioggia e noi le lasciamo e ci dirigiamo verso la struttura in cui alloggiamo dove troviamo un buffet di cibo per noi che ci attende. Al nostro arrivo, i ragazzi che si occupano del buffet ci invitano a mangiare.
Ci sediamo tutte alla tavolata lunga in cui condividevamo tutti i nostri pasti.
Avevamo le facce bruciate dal sole, le guance rosse e dei cerchi scuri intorno agli occhi, un sorriso stampato in faccia e i capelli tutti arruffati tra polvere e sudore. Nessuna si alzava a prendere da mangiare, continuavamo a raccontarci quello che avevamo appena vissuto, era la prima volta che ci fermavamo da quando ci erano venute a prendere la mattina e che avevamo modo di parlarne.
I ragazzi del buffet tornano una seconda volta per dirci che il cibo è pronto. Noi scoppiamo a ridere, eravamo talmente tanto piene di euforia che la fame era passata in secondo piano. Io, che dimentico di avere fame… questo è un evento raro quanto la pioggia in quel luogo.
Dopo pranzo Cintia si è affacciata al nostro alloggio e ci ha chiesto se eravamo pronte per tornare da loro. Con lo sguardo furbetto mi guarda e mi dice “visto, come ti avevo detto, la pioggia non è arrivata, ma sta piovendo laggiù sulle montagne” indicando con la mano il cielo nero in lontananza. Un pò abbattuta la guardo e inarco le labbra in una smorfia come per dire “uffa”. Non sapevo davvero cos’altro dire, era frustrante.
Stanchissime ma carburate dalla nostra euforia ci siamo rimesse in cammino e siamo tornate al villaggio in cui ci aspettavano tutte le donne sedute sotto l’ombra di un albero di acacia (altro motivo per cui devono assolutamente proteggere il loro territorio da elefanti e giraffe, che altrimenti mangerebbero le chiome degli alberi che sono le loro uniche zone di ombra) con delle buste piene di perline colorate. I miei occhi non credevano a ciò che stavano vedendo. Ho sempre adorato creare collane e bracciali con le perline fin da quando ero piccola. Ricordo ancora quando andavo in merceria a circa 10 anni con mamma e la pregavo di comprarmi un nuovo tubetto di perline colorate. Avevo un libretto con disegnate le istruzioni per creare nuovi pattern e mi divertivo tantissimo.
Ci siamo sedute con loro a terra, avevano tirato fuori dalle loro case le pelli di capra per farci sedere sopra, ma avevo preferito sedermi a terra. L’idea di essere seduta sulla pelle e il pelo di un animale morto mi inquietava un pò.
Una delle donne mi prende e mi mette un fil di ferro e delle perline tra le mani, mi mostra come le raccoglie velocemente con un movimento esperto infilandole direttamente nel fil di ferro e poi mi lascia lavorare. Ogni tanto mi guardava e rideva, secondo me mi prendeva in giro per la mia lentezza, e aveva ragione, ero abbastanza comica.
Eravamo tutte molto silenziose, intente ad infilare quelle piccolissime perline di vetro nel filo, e siamo andate avanti così per un paio d’ora creando collane, bracciali, cavigliere, orecchini e anelli. È bello, è meditativo e rilassante, ti permette di concentrarti su qualcosa mentre condividi del lavoro insieme ad altre persone tra un pensiero interno e una chiacchiera condivisa.
Sarei rimasta a lavorare la per ore se non fosse che ad un certo punto sono arrivati tantissimi bambini e bambine che indossavano delle bellissime divise tutte uguali: salopette gonna a tema scozzese (quadri rossi e neri) per le bambine con una camicia bianca sporca sotto, e camicia altrettanto sporca dalla terra e pantaloncino dello stesso colore per i maschietti.
Erano una ventina, tutti i figli delle donne che tornavano da scuola.
Infatti nel loro villaggio ci sono due scuole, un asilo e un’elementare/media.
Ci avevano portato a visitare la scuoletta dei più piccoli (dai 3 ai 5 anni) quella mattina mentre camminavamo per andare al fiume.
I bimbi erano nelle due classi, circa 20 bambini a classe. Le due classi erano letteralmente quattro mura di cemento con un tetto di lamiera sollevato per far passare l’aria.
All’interno i muri erano colorati e pieni di disegni e cartelloni fatti dai bambini stessi.
La maestra era bellissima, sembrava essere uscita da un film anni cinquanta. Indossava un vestito color lavanda decorato sul petto e aveva i capelli di treccine raccolti in un grande chignon sulla testa. Come eravamo entrate nelle classi i bambini si erano alzati in piedi in forma di saluto e si erano riseduti, osservandoci. Alcuni seri e curiosi, altri ridacchiando e salutandoci con la manina.
La maestra ci accoglie e continua la sua lezione. Aveva una bacchetta in mano e ha iniziato a indicare dei disegni su un cartellone appeso al muro, di rimando i bambini hanno iniziato in coro a dire il nome dell’oggetto che indicava prima in Swahili e poi in Inglese.
Erano piccoli piccoli, ma bravissimi.
Cintia ci aveva spiegato che per loro è fondamentale educare i bambini fin da piccoli, insegnandogli sia lo Swahili che l’inglese oltre alle generali materie scolastiche. Ma soprattutto un focus maggiore era dato all’educazione dei bambini maschi, ai quali viene insegnato come trattare una donna proprio per evitare che la prossima generazione ripeta gli stessi errori commessi da quelle passate, nella speranza che non serva più un villaggio di donne Samburu. Ma possano vivere semplicemente in pace, uomini e donne.
L’arrivo dei bambini in divisa aveva distolto la mia attenzione dalle perline. Mi alzo e vado a salutarli e loro con un sorrisone mi risalutano. Così mi avvicino e gli chiedo come si chiamano. Alcunæ erano timidæ e con un sorriso abbassavano lo sguardo, altræ erano più spigliatæ e si spintonavano un pò per decidere chi dovesse parlare prima con me.
Non sono un’amante dei bambini devo essere sincera, non ho mai avuto quella spinta che ti fa prendere in braccio un bambino e sbaciucchiartelo, sono abbastanza restia quando ci sono di mezzo nasi moccolosi e bava (ahaha oh, non si può essere tutti amanti delle stesse cose!!) ma per qualche motivo avevo sentito il bisogno di sedermi li tra loro e chiacchierarci.
Mi avevano raccontato che alcunæ di loro erano fratelli e sorelle, altræ amicæ. Che avevano appena passato la giornata a scuola e ora potevano giocare. I maschi erano già all’opera, si erano levati le camice e a torso nudo e scalzi avevano imbastito una partita di calcio con una palla fatta di stracci ficcati all’interno di un calzino legato.
Le bambine tirano fuori dagli zainetti delle corde e iniziano a saltare, mentre alcune altre intonano una canzone e si mettono a ballare. Le osservavo, e per quanto si possa credere che i bambini di un villaggio Samburu nel mezzo della savana del Kenya siano tanto diversi da noi, in realtà credetemi, non lo erano.
In un istante la mia memoria vola alle ore spese in giardino a ricreazione alle elementari in cui facevamo esattamente le stesse identiche cose. Saltavamo con la corda, inventavamo dei balletti su delle canzoncine, qualcuno giocava a calcio. Urlavamo, correvamo, ci divertivamo proprio come loro. Ed è in questi istanti che la prova vivente dell’uguaglianza umana - nonostante il colore della pelle, della cultura e dello stato sociale - viene a galla facendoci capire che non c’è alcuna differenza tra noi, se non il luogo di nascita che ha fatto sì che cambiasse tutto il resto nella nostra vita.
Ho trascorso il resto del pomeriggio ad imparare canzoncine e balletti, a fotografare le bambine che saltavano con la corda facendo una gara a chi saltava più in alto, e a curiosare nei loro zainetti dai quali avevano tirato fuori, tutte fiere, i loro quaderni di scuola tutti ordinati e ben scritti.
Se ripenso a quella giornata non mi capacito di quante cose i miei occhi abbiano visto, quante cose il mio cuore abbia assorbito e quante cose la mia anima abbia processato in sole 12 ore.
Ero esterrefatta da tutto, al punto da non essermi minimamente resa conto che la giornata fosse finita, quando Rebecca è arrivata a presentarsi e salutarci dicendoci che la nostra giornata al villaggio era conclusa e ci lasciava tornare alla nostra struttura per la cena e per la notte.
I saluti non sono stati facili, quello che avevamo vissuto (sia noi, che loro) vanno al di là di ogni parola che io possa scrivere per spiegare. Antonella era venuta a salutarmi e poi quando si è trovata davanti a me gli occhi le si sono riempiti di lacrime e i miei occhi hanno fatto compagnia ai suoi. L’ho abbracciata fortissimo, le avrei voluto dire che ci saremmo sicuramente riviste ma chi lo sa come va la vita?
Ero sicura che in un’altra vita fossimo state migliori amiche o sorelle, la connessione che si era formata tra di noi era troppo forte per essere solo due sconosciute di due mondi diversi che si erano conosciute quella mattina li.
I saluti e gli abbracci sono continuati per un bel pò e poi le donne ci hanno salutato con un canto. Una cerimonia dell’addio. Esattamente come erano arrivate attraverso quei cespugli, le abbiamo osservate andarsene. Ero a pezzi. Mi faceva male il petto. Il pensiero di aver incrociato per un giorno delle donne così speciali, di aver avuto un’opportunità così grande e irripetibile, di aver avuto l’onore di entrare in contatto con un mondo così diverso eppure uguale al nostro.
Mi sono girata e in silenzio sono andata nella mia camera. Ho chiuso la porta alle mie spalle e sono scoppiata in un pianto inconsolabile.
Qualche ora dopo avevamo finito di cenare ed io mi sono alzata dal tavolo e mi sono seduta su un muretto poco più in la a guardare uno spettacolo di lampi e fulmini che stava illuminando il cielo da un pò. Da qualche parte, qualche chilometro più in la stava diluviando. Era incredibile da guardare. Ogni fulmine che colpiva la Terra, il panorama veniva illuminato a giorno, svelando l’inconfondibile profilo della Savana con i suoi tipici alberi di acacia larghi e piatta sulla chioma.
Stavo osservando una tempesta di fulmini in mezzo alla savana, seduta su un muretto accanto ad un villaggio di donne Samburu.
Ero incredula.
Stanca, distrutta, esausta ma davvero felice e piena, mi sono lasciata cadere nel mio letto e sono sprofondata in un sonno pesantissimo.
Alle 4 di mattina mi sveglio di colpo per un rumore fortissimo che inizialmente non riesco ad interpretare. Metto a fuoco la situazione e mi rendo conto che qualcosa sta sbattendo contro la tettoia di lamiera dell’atrio della mia casetta. Salto su dal letto, mi affaccio alla finestra e i miei occhi non possono credere a ciò che vedono: siamo in mezzo ad un diluvio gigantesco.
Mi precipito alla porta, scalza, e mi rendo conto che il pavimento è tutto allagato dalla pioggia che è entrata da ovunque.
Apro la porta ed esco, mi trovo sotto la tempesta e vorrei poter urlare dalla gioia.
Non riuscivo a crederci. Continuavo a sentire le parole di Cintia “non piove da quattro anni”, “fa sempre così, piove alle montagne ma qui passa e se ne va”, ed io ero la ad osservare centinaia di migliaia di litri d’acqua cadere dal cielo. Mi veniva da ridere e da piangere allo stesso tempo, mi guardavo intorno in cerca di qualcun’altra che si fosse svegliata e che come me fosse la fuori ma non c’era nessuno. Incredula quindi sono rientrata nella stanza ho asciugato i piedi e sono tornata a dormire.
La mattina seguente mi sono svegliata con gli urletti felici di una delle ragazze del mio gruppo fuori dalle casette, sono saltata giù dal letto e ho spalancato la porta della mia casetta e non potevo credere in ciò che stava accadendo: il fiume che fino a poche ore prima era una distesa arida adesso era in pieno, l’acqua scorreva veloce e formava delle onde gigantesche. La savana era viva di nuovo, potevo solo immaginare la felicità delle donne Samburu dopo quella nottata di pioggia.
Le canzone della pioggia aveva funzionato, le nostre voci si erano unite ed erano state ascoltate, l’energia che avevano mandato trenta donne che pregavano in Samburu attraverso una cantilena di parola di era trasformata in un vero e proprio miracolo. Non riesco a spiegarmi una cosa del genere, ma che bisogno c’è di dover dare una spiegazione scientifica ad ogni cosa che accade nella vita?
Non avevo tempo per spiegazioni scientifiche, volevo festeggiare. Siamo uscite dalle nostre casette una ad una, alcune di loro non si erano svegliate la notte e quindi non avevano idea di cosa fosse successo, fatto sta che abbiamo passato i primi minuti di quella giornata a fissare il fiume in piena che correva veloce e potente, incredule ed euforiche.
Un’ora dopo entravamo nei nostri van e lasciavamo Samburu. Silenziose andavamo via dal villaggio che ci aveva ospitato passando davanti al villaggio delle donne…
E poi da lontano la vedo, Antonella che corre fuori dal suo villaggio sbracciandosi e urlando, seguita da altre donne.
Apro di corsa il finestrino e inizio a sbracciarmi anche io verso di lei “Ciaoooo Antooooo ciaaaaoooooooo” ho di nuovo gli occhi pieni di lacrime e sorrido al punto da farmi male le guance.
Grazie Anto, grazie donne Samburu, grazie di averci accolto, di averci fatto vivere una giornata con voi, di aver condiviso con noi la vostra quotidianità, di averci fatto sentire come se fossimo sorelle o amiche da sempre, grazie degli sguardi intensi che non necessitano parole, degli abbraccia calorosi.
Grazie di tutta la magia che avete portato nella mia vita, una magia di cui farò tesoro e che mai lascerò andare.
Con la promessa che tornerò a trovarvi, questo non è un addio.
I salti dei Maasai
Ho fissato il mondo scorrere dal finestrino per ore prima di riuscire a riprendermi… osservavo come ancora una volta il paesaggio cambiava, passando dalle strade sterrate all’interno dei villaggi della popolazione Samburu a quelle asfaltate e frenetiche dei paesi che ci separavano di svariate ore dalla nostra nuova tappa: il villaggio Maasai.
Abbiamo attraversato paesi molto poveri, in cui la gente era riversata sulle strade cercando di vendere qualsiasi cosa, per poi passare a paesi benestanti in cui ai bordi delle strade si vedevano flotte di ragazzi e bambini in divise pulite e ordinate che uscivano da scuola per tornare in case belle e colorate, abbiamo passato un paese conosciuto per la sua coltivazione di cipolla con decine e decine di banchetti che vendevano cipolle e tutto quel tratto è stato aromatizzato dall’ortaggio. Era difficile annoiarsi in viaggio, guardando dal finestrino scorreva vivissima la vita di sconosciuti, per pochi istanti.
Poi, fermi ad un’area di sosta, per scherzare chiedo ad Anthony (uno dei nostri due drivers) se mi fa guidare il suo van fino all’arrivo. Lui scoppia a ridere e mi porge le chiavi. Pensavo che scherzasse e così non ho allungato la mano per prenderle, ma lui me le ha messe in mano alzando le spalle. Ah! Era serio!!
Gasatissima faccio il giro del furgone, salgo sul posto del guidatore e sistemo per la mia altezza il sedile e gli specchietti. In pochi minuti stiamo percorrendo le strade follemente trafficate da macchine che guidano contro senso, con fossi in mezzo alle strade e animali sul ciglio. La guida in Kenya è come in Australia: al contrario. Il guidatore è sul lato destro della macchina e guida sulla corsia sinistra della strada. Si sorpassa a destra e le rotonde si prendono da sinistra.
Lasciamo poi la strada asfaltata ancora una volta immergendoci in quella sterrata, piena di buche.
Anthony mi dice di rallentare ogni due minuti, ogni tanto mi facevo prendere dall’euforia del momento.
Seduta dietro, nel van che stavo guidando, insieme alle altre ragazze c’era Federica ( @una.psico ) che aveva preso le redini della questione musica. Una delle cose che amo di più quando guido specialmente in roadtrip è avere la musica giusta. Magicamente Fede ha iniziato a mettere le canzoni che avrei messo io. Per un istante sembrava che mi leggesse nella mente, e ogni nuova canzone che partiva era un “nooooo daaiiii” che esclamavo stupita e felicissima.
E così fluttuavo per quelle vie che di li a poco ci avrebbero fatto arrivare dai Maasai.
Siamo arrivati al villaggio verso l’ora di pranzo e ad accoglierci c’erano dei guerrieri Maasai schierati a semicerchio che ci aspettavano. Al nostro arrivo li ho visti scoppiare a ridere stupiti vedendo che alla guida c’ero io. “Ma stanno ridendo di me?!” Chiedo ad Anthony che a sua volta scoppia a ridere “le donne qui non guidano, quindi per loro è una novità”.
Uscite dai van eravamo emozionantissime ma ci siamo subito zittite come i guerrieri Maasai e le donne al loro fianco hanno iniziato a cantare per la cerimonia del benvenuto. È incredibile pensare che al mondo ci siano persone che non hanno mai perso le proprie tradizioni, che non si sono omologati al resto del mondo moderno e a tratti malato.
Mentre continuavano a cantare uno dei ragazzi è stato spinto al centro dagli altri e lui ha iniziato a saltare: gambe unite, dritto come uno stecco, piedi scalzi, faceva dei salti incredibili e poi è tornato al suo posto e ha spingo a sua volta un altro ragazzo che ha subito iniziato a saltare sempre più alto e poi si sono girati verso di noi e ci hanno invitato a saltare… una scena pietosa. 10 di noi che tentavano di saltare come loro ma secondo me da fuori sembravamo 10 Spring Rolls più che dei guerrieri Maasai. I guerrieri si sono poi fermati e tra una risalta e l’altra la donna che rappresentava il gruppo è venuta verso di me con un sorriso cordiale e ci ha spiegato che per loro saltare è un buon auspicio per ricevere più mucche da Dio (per loro le mucche sono tutto, sono il loro cibo e la loro moneta di scambio) e quindi essendo in tanti, più saltavamo e più fortuna avremmo portato e mi dice poi che è buona educazione metterci tutte in fila, proprio come loro, e passare a stringere la mano una ad una ad ognuno di loro dicendo la parola “sopa” che è il loro modo di darsi il benvenuto l’un l’altro.
Ogni stretta di mano era diversa, alcuni la stringevano in maniera morbida e cordiale con un leggero sorriso, altri la shakeravano mostrando tutti i denti e urlando “sooopa!!”!! Erano un incanto da guardare, trasmettevano euforia e voglia di vivere.
Ognuno di loro poi si è levato lo shuka colorato di dosso e uno ad uno sono venuti a mettercelo sulle spalle legandocelo a mó di mantella sul petto. Era un modo di dirci che eravamo le benvenute la con loro.
Abbiamo passato tre giorni in questa parte del villaggio creata proprio per ospitare i viaggiatori, all’interno del villaggio principale. Parte del ricavato guadagnato da noi viaggiatori finisce nel finanziamento del villaggio di donne Maasai e nella scuola. Delle piccole tende erano pronte per ospitarci in quella che era la savana, senza recinzioni ancora una volta. Davanti agli accampamenti di tende c’era un falò sempre acceso, giorno e notte, attorno al quale sedevano dei guerrieri con la lancia e le torce, pronti a soccorrerci nel caso in cui qualche animale si fosse avvicinato troppo al villaggio e a scortarci nei bagni la notte.
Ci hanno invitato a sederci subito a tavola per il pranzo: avevano adibito un’area in un bosco di grandissimi alberi-cactus che vengono chiamati African Milk Trees con dei tavoli e un buffet preparato da loro. Sul buffet le pietanze erano tipiche: chapati caldo, zuppa di piselli e carote e insalata di cavolo cappuccio.
Ad aspettarci al tavolo c’era Salaton, il “chief” nonchè il capo del villaggio, che ha fondato questo accampamento per noi viaggiatori oltre ad aver creato una delle scuole più belle scuole che io abbia mai visto.
Appena finito il pranzo infatti Salaton insieme al suo braccio destro Koila, ci hanno portato a visitare il villaggio. Ci troviamo in una parte di savana abitata da una popolazione Maasai che si è stabilita qui per via di una sorgente naturale di acqua calda. Un piccolo fiume nel quale scorre acqua calda e quindi perfetta per lavarsi. Passiamo infatti davanti alla sorgente e troviamo donne e bambini che si lavano, gli uomini erano da una parte diversa, divisi dalle donne. Ci sono anche degli asini con delle taniche montate sulla schiena che stanno per essere riempite d’acqua e portate nelle varie case e capanne.
Ovunque ci sono pecore, capre e mucche. Sembra essere un buon villaggio, c’è acqua in abbondanza e ci sono tanti animali per il loro cibo, nonostante il luogo prevalentemente secco e quindi difficile da coltivare, loro sembrano stare bene.
Arriviamo finalmente al muro di cinta della scuola sul quale è affisso un cartello con scritto ENKITENG LEPA SCHOOL ed un simbolo che rappresenta le femmine con all’interno una mucca sbarrata e riporta scritto “don’t exchange girls for cous, give them education” ovvero “non scambiare le ragazze per le mucche, dagli un’educazione”.
Enkiteng Lepa significa significa “mucca viola” in Maasai, e il concetto dietro a questa scuola è che le mucche viola non esistono, ma se le puoi immaginare allora esistono, esattamente come l’educazione alle donne, che è ancora molto rara in questa parte di mondo, ma se la puoi immaginare allora puoi farla esistere ed è proprio su questo concetto che si basa la scuola.
Al nostro arrivo troviamo tutti i bambini e ragazzi nel cortile pronti ad accoglierci con delle danze e dei canti che non aspettavamo e che in un istante mi ha fatto crollare in lacrime nonostante tutta me stessa cercasse di non farlo. Ma la potenza di un momento del genere va oltre ogni aspettativa, e ritrovarsi in 10 affiancate da Salaton (il preside fondatore della scuola, con la sua lancia tra le mani e il mantello rosso sulle spalle) di fronte a centinaia di bambini in divisa che con le loro vocine cantano sia in Maasai che in inglese dandoti il benvenuto e raccontandoti quanto si impegnano perchè possano ricevere un’educazione è stato qualcosa che mi ha levato e dato tantissimo allo stesso tempo.
La coordinatrice della scuola è venuta verso di noi e ha detto a tutti i ragazzi di tornare nelle loro classi. Ci ha dato il benvenuto e raccontato di come è nata la scuola e quali sono i loro valori. Ci ha portato poi a visitare l’interno. Erano tutti ben vestiti con completi ordinati, tutti molto seri, sia gli insegnanti che gli studenti.
Abbiamo iniziato il tour dalla sala degli insegnanti all’interno della quale c’erano delle grandissimi lavagne con sopra suddivisi tutti gli orari di tutte le classi scritti in inglese.
Leggendo l’orario alcune materie erano chiare, c’era inglese, matematica, storia, scienze e via dicendo. C’erano poi delle diciture che non riuscivo a decifrare e così ho chiesto alla coordinatrice: “AGR” era la classe di agricoltura, “SKILLS” erano delle classi pratiche in cui imparano a cucinare, a pulire, ad aggiustare cose, c’era poi una dicitura “HSC” che era una classe in cui gli insegnano a rapportarsi alle persone, a cercare un lavoro, ad approcciarsi alla vita reale.
Insomma, usciti da questa scuola i ragazzi saranno totalmente formati su un piano teorico e pratico e pronti alla vita. Diversamente da come usciamo noi dalle nostre scuole, ecco.
Abbiamo poi fatto un tour delle classi, partendo dai più piccini, dei bambinetti seduti su delle sedioline minuscole a dei banchetti alti si e no 50cm. Avevano dai 3 ai 5 anni, la classe era piena oggetti che variavano da giochi, pupazzi, lego (che ci hanno raccontato essere stati donati) e finte cucinette ad armi Maasai, teschi di animali selvatici e corni vari.
I bimbetti ci guardavano incuriositi, qualcuno sorrideva, qualcun altro rimaneva a bocca spalancata e ci osservava.
Passiamo poi ad alcune delle classi dei più grandi, le aule sono spaziose e luminose, i pavimenti e i muri sono in cemento e hanno delle crepe e dei buchi qua e la ma sono decorati con dei cartelloni fatti dai ragazzi stessi esattamente come quelli che facevamo noi a scuola. È divertente trovare delle analogie tra noi e loro, nelle usanze, nonostante la gigante differenza culturale e tradizionale, in fondo siamo davvero simili su molti piani.
Entrando nella classe dei più grandi (circa 16 anni) una delle studentesse si alza e con un inglese impeccabile ci da il benvenuto, raccontandoci quello che studiano, il programma che stanno seguendo e il goal che hanno per la loro educazione ed il loro futuro, dicendoci che nonostante loro siano ragazze stanno avendo un’educazione e questo le porterà un giorno a trovare un lavoro dignitoso. Ci chiede poi di presentarci e raccontarci cosa stiamo facendo la.
Non avevo pensato alla possibilità di una cosa del genere e non avevo preparato assolutamente nessun discorso ma tutte le mie compagne di viaggio mi guardano e Salaton con un cenno del capo mi invita a parlare. Avete presente la scena di Hermione che viene chiamata dalla McGranit a salire sullo sgabello per far si che il cappello scelga a quale casa attribuirla? Eccomi, che lentamente faccio dei passi avanti verso i ragazzi pensando dentro di me “oh no, coraggio, sta calma e trova delle parole che abbiano un senso!!!”.
Mi presento e presento il nostro gruppo di sole donne raccontando che siamo in viaggio in Kenya per conoscere altre donne, conoscere la loro cultura e poter portare ispirazione per continuare a studiare proprio come abbiamo fatto anche noi. Ero molto emozionata e decisamente non pronta a questo intervento di fronte a tantissimi occhi che mi fissavano. Così ho tagliato corto sorridendo e ringraziandoli di averci dato l’opportunità di visitare la loro scuola e conoscerle. Ma mi sono sentita un’idiota. Una di quelle situazioni in cui avrei potuto magari cambiare davvero qualcosa, se me lo avessero detto prima, avrei potuto preparare un discorso decente. Ma non mi era stato dato l’avviso e così ho dovuto lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento ed uscissero poche parole sensate dalla mia bocca. Parole che pochi minuti dopo riecheggiavano nella mia mente pensando a tantissime cose molto più motivazionali e sensate avrei potuto dire lasciando magari qualcosa di concreto nei loro cuori. Ma purtroppo la vita non ti permette di tornare indietro ne di comandare alcune emozioni che ti congelano.
Il tour della scuola si è concluso con una passeggiata nel loro orto, che coltivano tutti insieme tramite l’aiuto di una piccola fabbrica di bio gas, un grande pallone nero e gonfio dentro al quale loro buttano i rifiuti di cibo che finendo all’interno del pallone nero, si scaldano stanno al sole e fermentando creano gas che passa attraverso delle tubature connesse al pallone e lo portano direttamente al capannone accanto in cui c’è la cucina. Utilizzando così il gas auto-prodotto per cucinare e i succhi di scarto del pallone vengono usati come fertilizzante per l’orto. Una pratica bellissima di auto produzione a 360 gradi.
Questi ragazzi usciranno dalle scuole pronti per cambiare il mondo, con delle nozioni di sostenibilità ed un’educazione di vita che noi forse non impareremo mai.
Tornando al nostro accampamento Salaton e Koila si fermano tra i boschi di alberi cactus guardandosi intorno, si dicono qualcosa in lingua Maasai e poi Salaton tira la sua lancia contro uno dei Milk Trees che era già stato colpito ripetutamente, doveva essere l’albero per l’allenamento ai tiri e in quell’istante capisco perchè si chiamano così: il punto in cui la lancia si è incastrata inizia a far colare un liquido denso e bianco, che sembra proprio latte. Koila scoppia a ridere prendendolo in giro per il suo tiro, e tira la lancia a sua volta cercando di colpire l’albero meglio di lui. Iniziano a ridere entrambi poi si girano e ci porgono le lance.
Yessss, stavo sperando di poterci provare!! Sono la prima che si fa avanti immediatamente, Salaton mi spiega come tirarla e mi dice di stare attenta a non affettarmi la testa o l’orecchio tenendo la lancia ben salda e lontana dalla faccia mentre la tiro. È pesante, fatta di legno con alle due estremità una lama piatta che tengo dietro e una punta di ferro appuntita che è quella che si infilzerà nell’albero. Mi concentro fin troppo e poi tiro. Il mio tiro è decisamente più debole di quello dei ragazzi, ma riesco ad infilzare su un punto random dell’albero la mia lancia.
Mi sono sentita un pò in colpa per aver infilzato un albero così senza senso, ma a dire il vero ci sono tante cose di cui mi sento in colpa quando viaggio in paesi culturalmente diversi da quello in cui sono cresciuta, e ho dovuto con il tempo imparare a distaccarmi da alcune cose. Ho dovuto distaccarmi dalla visione delle centinaia di pecore che ho visto legate sotto al sole cocente sul ciglio della strada senza acqua durante le ore di viaggio, o delle mucche cariche “come muli” che venivano frustate con dei bastoni dagli allevatori che vedendole faticare le spingevano a fare peggio. Esattamente come ho dovuto distaccarmi dalla visione di molti altri trattamenti crudeli imposti agli animali quando ho viaggiato nel sud est asiatico, luogo in cui sono svenuta a terra presa dallo sconforto all’interno di un mercato pieno di animali maltrattati che presto sarebbero diventati cibo ma che ancora per pochi istanti erano vivi, se quella condizione si può chiamare tale. Ma non saranno le mie lacrime a fermare questo strazio, non sarà la voce di una bianca qualunque che gli chiede di smettere di farlo a cambiare le cose. Per loro questo è il normale modo di trattarli. E non penso sia cattiveria, ma un distacco che hanno da sempre verso quello che per loro è una delle uniche fonti di cibo. Non possono quindi permettersi di avere pietà perchè altrimenti non mangerebbero probabilmente.
Non è facile distaccarsi. Ed è un discorso davvero contorto.
Abbiamo passato il pomeriggio ad allenarci tirando la lancia e ci hanno poi raggiunto alcuni altri ragazzi guerrieri che si sono uniti a noi e ci hanno portato a vedere il tramonto in cima ad una collina poco lontana dall’accampamento. Una collina fatta di quarzo rosa che nel tempo si era sgretolata formando così un tappeto di piccoli quarzi sopra il quale noi camminavamo come nulla fosse. Una distesa infinita di quarzo, ecco su cosa poggiavamo i nostri piedi.
Arrivando in cima tra un’arrampicata e l’altra ci ritroviamo sul cocuzzolo del monte di quarzo dal quale è possibile vedere tutto intorno a noi la pianura infinita che è la savana. Toglie il fiato.
I guerrieri sono con noi, in piedi sulla punta del monte con un equilibrio incredibile sulle loro ciabatte fatte di copertoni di ruote delle macchine. Sono altissimi, magrissimi, affusolatissimi e bellissimi. Non parlano inglese ma ci guardano e sorridono tutto il tempo.
Poi uno di loro tira un urlo e poi inizia a muovere il petto in un movimento che ricorda un pò quello di un cammello emanando dei suoni gutturali che sembrano arrivare direttamente dalla bocca dello stomaco. L’altro guerriero attacca insieme a lui, creando una specie di concerto di voci, urletti e suoni gutturali. Ci invitano poi ad urlare con loro e io non me lo faccio ripetere due volte, non vedevo l’ora di urlare e fare casino. Cos’altro vuoi fare sulla cima di un monte che guarda la savana se non urlare di felicità insieme ai guerrieri Maasai?
Siamo lentamente scesi dal monte dopo che il sole è sparito dietro all’orizzonte, io affiancata da Nasieku, la ragazza che rappresentava il gruppo e l’unica a parlare inglese. Non è una cosa da tutti i giorni trovarsi a tu per tu con una donna Maasai, avrei voluto farle un milione di domande ma non sapevo da dove iniziare.
Così le ho chiesto se era felice della sua vita. A volte diamo per scontate cose della vita di persone di cui non sappiamo niente così ho pensato di lasciarlo dire a lei. Lei alza le spalle e fa una specie di verso con la bocca come a dire “mah…” ci pensa un attimo e poi mi dice “ho due bambini ma mio marito non vive qui nel villaggio con me perchè non c’è lavoro per lui qui e allora vive e lavora a circa otto ore da qui ma ci vediamo solo una volta ogni tre mesi perchè il viaggio costa tanto e nessuno dei due ha abbastanza giorni liberi”. Le chiedo quanti anni ha e lei sorride e mi dice “circa 26 o 27 ma non ne sono sicura, è un’età inventata per poter avere dei documenti. Quando sono nata non si calcolava l’età. Il tempo non è così importante per noi. Comunque lo contiamo attraverso la Luna, ci sono i giorni di Luna e quelli senza Luna”. Questo concetto mi ha lasciato di pietra, non riesco ad immaginare una vita senza il tempo anche se effettivamente il tempo non è qualcosa che esiste davvero.
È un’invenzione dell’uomo, una convenzione usata per dare una forma a ciò che viviamo nella vita. Ma cosa importa effettivamente se io ho 33 anni e tu ne hai 26, se la tua vita è stata totalmente diversa dalla mia, il parametro di tempo cambia. La vita si misura con le esperienze non con gli anni.
“Se potessi fare qualsiasi cosa nella vita, cosa faresti?” chiedo a Nasieku. Questa volta non ci pensa più di un secondo, mi guarda con gli occhi illuminati dai suoi desideri e mi dice “la guida turistica! Vorrei portare i turisti alla scoperta della mia terra” pensavo avrebbe detto qualcos’altro. Pensavo avrebbe detto qualcosa tipo “lasciare l’Africa e trasferirmi in America” o qualche lavoro complesso per cui serve chissà che laurea. “Cosa ti ferma dal fare la guida turistica?” le chiedo quindi confusa. In fondo non è tanto diverso da ciò che fa ora: prendersi cura dell’accampamento dei turisti, portarli in giro per il villaggio, chiacchierarci. “C’è bisogno di un attestato e una licenza. Ma per avere l’attestato devo fare la scuola ed è troppo costosa” mi dice. “Quanto costosa?” Nasieku ha perso un pò di quella luminosità che aveva negli occhi un attimo prima. “Circa 3000$ americani (circa 2700 euro), è impossibile sono troppi soldi”. Un lavoratore medio in Kenya guadagna meno di 200 euro al mese, quindi immagino che la paga di una donna in un villaggio Maasai possa essere ben al di sotto di quella cifra. Quindi secondo i miei calcoli 2700 sono praticamente lo stipendio intero di circa due anni, senza ovviamene contare le spese per affitto / cibo / scuola per due bambini e via dicendo. Praticamente impossibile per Nasieku realizzare il suo sogno.
Mi trovo allora di fronte ad una situazione davvero scomoda, una delle tante vissute negli ultimi anni viaggiando parecchio e specchiandomi con situazioni simili.
Cosa sono per me 2700 euro? Nulla in confronto a lei. Potrei alzare in questo istante un dito ed avverare il suo sogno. Cambiarle la vita. Così, puff. Semplicemente cliccando due tasti sullo schermo del mio smartphone che costa quasi quanto il suo corso per diventare guida turistica.
“E allora perchè non lo fai?” direte voi. Eh, perchè non lo faccio? Perchè esattamente come ho incontrato Nasieku, ho incontrato tanti altri ragazzi e ragazze ai quali avrei potuto avverare il sogno. Ma allora come si fa? Come si sceglie chi aiutare e chi ignorare? Ovviamente non si può aiutare tutti. Ho ascoltato Nasieku fino al nostro arrivo al tavolo della cena dove mi ha poi lasciato per riunirsi allo staff della struttura.
Mi sono seduta al tavolo insieme a tutti gli altri, di fronte a Salaton che con uno sguardo furbo mi sorrideva pronto per fare qualche battuta che difficilmente capivo ma alla quale cercavo di sbellicarmi per farlo felice! Dopo la cena ci hanno invitati intorno a quello che stava per diventare un falò: i guerrieri ci stavano aspettando per insegnarci ad accendere il fuoco partendo da un bastone sfregato su una base di legno, accendendo poi dei batuffoli di qualcosa di simile al pioppo e poi trasformando il tutto in un gigantesco falò. Avevo sempre sognato di imparare questa skill, nella mia testa era sempre sembrato qualcosa di incredibile ma era in realtà molto più facile di ciò che pensassi: Il bastone era di un legno molto solido, tanto per cominciare, nonostante fosse molto fino non accennava a piegarsi quando con tutta la forza delle due mani lo facevo roteare e sfregare più veloce possibile sulla base di una barretta di legno. Farlo da soli era davvero difficile così ogni 30 secondi circa lasciavo tutto a Federica che di corsa prendeva il bastoncino cercando di non interrompere tutto lo sfregamento e il calore che avevo iniziato per poi lasciarlo di nuovo a me, fino a che improvvisamente un filo di fumo inizia a salire dal punto in cui il bastone sfregava la base di legno. Quello è il momento in cui la persona che non sta sfregando il bastone deve iniziare a soffiare leggermente cercando di alimentare la piccolissima scintilla che si è accesa e lentamente si avvicina il piccolo batuffolo che, se tutto va come previsto, dovrebbe prendere fuoco e a quel punto si usa quella fiammella come un accendino per accendere la legna precedentemente disposta nel centro dei sedicenti fatti di tronchi tagliati, su cui ci saremmo seduti tutti di li a poco.
Abbiamo passato tutta la sera sotto le stelle, sedute intorno al falò. Salaton e i guerrieri cantavano canzoni che in Maasai raccontavano scene di caccia o di vita quotidiana. I suoni emessi dai Maasai sono una delle cose più ipnotiche e speciali che io abbia mai sentito. Difficile da credere che un umano possa creare con la propria voce dei suoni così. Poi i guerrieri si sono fermati, per qualche minuto abbiamo ascoltato solo il rumore del fuoco che scoppiettava e ogni tanto creava delle scintille che volavano e si dissolvevano nel cielo.
Qualcuno poi ha interrotto il silenzio con una domanda: “Salaton, hai mai incontrato un leone o un leopardo?” i guerrieri allora si girano a guardarlo, in attesa che lui traduca cosa gli è stato chiesto. La traduzione arriva velocemente, e tutti i guerrieri sono scoppiati a ridere.
Ma non vi ho spiegato perchè vengono chiamati “guerrieri”.
Per un uomo Maasai, raggiungere lo stato di guerriero significa diventare adulto, un uomo forte e completo. Perchè questo accada, un ragazzo deve passare del tempo, settimane a volte mesi, nella Savana nell’attesa di riuscire ad uccidere un leone con la propria lancia. Preferirei rimanere bambino per sempre credo, piuttosto che trovarmi da sola nella savana a dover uccidere un leone. Ma per loro è una questione di onore, coraggio e alla fine della fiera, è un rito di passaggio: vengono circoncisi e uccidono un leone.
Ad oggi le cose sono diverse, da qualche anno è stato decretato illegale uccidere i leoni e così questa pratica è stata interrotta.
Salaton inizia poi a raccontare la sua storia, sul falò è calato immediatamente il silenzio.
“Ero solo un ragazzo, troppo giovane, ed ero nella savana con Koila quando all’improvviso un leopardo mi è saltato al collo. Ha iniziato a sbranarmi, vedevo il sangue uscire a litri dal mio corpo, Koila non sapeva se aiutarmi o andare a chiamare aiuto. Ero finito, ero sicuro che di li a poco la mia vita sarebbe terminata. Poi Koila è riuscito a tirare la lancia sul leopardo ed io l’ho colpito con la mia. Il leopardo è morto e tutti credevano che fossi morto anche io, sdraiato in una pozza di sangue senza muovermi, eppure eccomi qua. Sopravvissuto ad un leopardo, che vi racconto questa storia. Se non fosse stato per Koila oggi non sarei stato qui” guarda Koila che compiaciuto gli sorride e abbassa lo sguardo.
Ero seduta intorno ad un fuoco, nella savana Africana, con un capo Maasai e i suoi guerrieri. Un guerriero Maasai che da ragazzo è sopravvissuto all’attacco di un leopardo. Io non so se avete presente quanto è grosso un leopardo e li per li non lo sapevo nemmeno io, ma il giorno seguente lo avrei scoperto. Tra tanti animali, diciamo che non è quello che vorresti ritrovarti di fronte mentre sei a piedi nella savana. Comunque ero li, e a tratti mi sembrava di non realizzare davvero dov’ero. Mai avrei creduto nella vita che avrei avuto un’opportunità preziosa come questa.
Li osservavo innamorata. Innamorata di loro, delle loro voci, delle scintille del fuoco che volavano alte tra di noi, delle migliaia di stelle che brillavano nel cielo. Innamorata della vita, come poche altre volte mi ero resa conto di essere.
Quella notte sono entrata nella mia tenda, davanti la quale sedevano dei guerrieri con un fuoco acceso armati delle loro lance che si assicuravano che durante la notte non si avvicinassero predatori pericolosi. Mi sono sdraiata ad occhi spalancati a fissare il soffitto della tenda mentre ascoltavo l’ululato delle iene diventare sempre più forti e nitidi. Pensavo che non sarei mai stata capace di addormentarmi, l’adrenalina quella sera era davvero troppa, le informazioni che il mio cervello aveva ricevuto erano davvero troppe, quel giorno si erano avverati tanti sogni tutti insieme, ero venuta a conoscenza di realtà che da una parte mi avevano arricchito e dall’altra mi avevano lasciato parecchio su cui pensare e ragionare.
Ero presa dai miei pensieri quando senza nemmeno accorgermene ho riaperto gli occhi ed era mattina e questo significava solo una cosa: era il momento di partire. Ancora una volta.
Non ero mai pronta per questo momento. Sono andata da Nasieku, non sapevo se l’avrei rivista nella mia vita o se un giorno avrei capito che sarebbe stato giusto aiutarla, comunque le ho chiesto il numero di telefono e ho scoperto che aveva whatsapp. Ho abbracciato Nasieku, ho abbracciato Salaton che mi ha fatto promettere di tornare. Ho salutato tutti i guerrieri che erano in piedi a semicerchio che ci guardavano salire sui nostri van. Ci salutavano con un sorriso un pò dispiaciuto.
È difficile, ed è una cosa che credo sia insita nell’essere umano: la difficoltà nel dire addio dopo che ci si è trovati bene e si è passato del tempo insieme. Ci si affeziona, specialmente quando si sa che probabilmente non ci si rivedrà più.
Rimane questo bisogno di mantenere i contatti, cosa per cui ad oggi usiamo Facebook e poi ci ritroviamo - a me succede spesso - a seguire gente che nemmeno ricordavamo più chiedendoci chi siano quelle persone. Nonostante al tempo sembrava di aver trovato gli amici della vita.
Forse non abbiamo bisogno di mantenere i contatti con tutte le persone anche anche solo per qualche minuto ci hanno fatto sorridere e passare un bel momento, forse basterebbe ricordarli per quanto possibile, attribuendoli ad un momento più che alla persona in se.
Grati di aver condiviso con altri umani dei momenti speciali, che rimarranno nei nostri cuori ma non nei nostri telefoni.
Ma siamo umani e si sa, spesso viviamo in balia delle emozioni. E forse va bene così.
Il mio primo safari
La sveglia delle 5am è arrivata come un pugno in faccia in mezzo alla nottata, odio essere svegliata e soprattutto odio svegliarmi quando fuori è ancora buio. Quella mattina stava anche piovendo. Era il connubio perfetto per rimanere sotto le coperte in quella bellissima tenda nel mezzo della Savana in cui avevamo passato la notte tra il suono dei grilli, i versi delle iene e quelli goffissimi degli ippopotami che abitavano il fiume che passava proprio la davanti alla nostra tenda. Continuo a rimandare la sveglia e riaddormentarmi, consapevole dell’appuntamento alle 6am alla tenda principale. Ho finto di essere morta fino all’ultimo, quando ho sentito un guerriero Maasai fuori dalla nostra tenda chiamarci con una torcia accesa. Apro un occhio e guardo il telefono, sono le 6 meno 5. Cazzo! Salto fuori dal letto e in un secondo lavo i denti mentre faccio pipì, infilo il pile pesante e i pantaloni lunghi, afferro la borsa della macchina fotografica e schizzo fuori.
Il guerriero Maasai è la per scortarci alla tenda comune come da regolamento: non si gira da soli per il camping prima dell’alba e dopo il tramonto perchè non ci sono recinzioni e siamo immersi nella savana, il che significa che potenzialmente potremmo trovarci davanti un leopardo o un ippopotamo o qualche animale predatore pericoloso. Così loro ci affiancano con una lancia in tutti gli spostamenti.
Arriviamo alla tenda comune dove ci stava aspettando un fuoco caldo, tè e caffè, biscottini e le nostre guide per il safari. Le ragazze erano già tutte la euforiche, giustamente! Non fraintendetemi, avevo un’euforia interna che mi stava mangiando viva, solo che era ancora intorpidita da quel risveglio traumatico. Così un pò come un orso, ho detto “ciao” alle mie compagne e mi sono seduta al tavolo fissando il tè nella tazza per un pò, persa nello stordimento.
Dopo pochi minuti le nostre guide dei safari si sono avvicinate sorridenti, erano pronte a partire prima dell’alba. La pioggia era diminuita ma il cielo era ancora coperto da nuvole spesse e scure.
Saliamo sulle Jeep elettriche: macchinoni enormi fatti per i safari, senza sportelli ne finestrini, ma soprattutto con il motore elettrico, che significa che la macchina non emette alcun rumore e quindi non si spaventano gli animali e non si inquina la savana.
Lasciamo il campeggio e ci inoltriamo in questa infinità di pianura ancora semi buia, tra cespugli e alberi che insieme alle gocce della pioggia creano una colonna sonora magica.
Masaai Mara
Sembrava di fluttuare all’interno della savana, nessuna di noi diceva una parola, tutte in silenzio assorte tra i nostri pensieri misti a sonno. Lentamente il cielo si illuminava man mano che si avvicinava l’ora dell’alba permettendoci di vedere sempre meglio ed è li che ho realizzato dove mi trovavo: Il Maasai Mara, una delle più importanti aree di conservazione della fauna selvatica in Africa, stabilita nel 1961. Ricopre un’area di 1,510 km2 e conta circa 90 specie di mammiferi e altrettante specie di uccelli. Qui vive una concentrazione altissima e una varietà incredibile di animali.
Amici, credetemi quando vi dico che io non avevo mai visto così tanti animali nella mia vita e soprattutto non avevo mai visto così tante specie diverse di animali coesistere pacificamente in una sola valle. Ma andiamo con calma.
Le nuvole erano ancora fitte ma la pioggia aveva rallentato il colpo ed erano ormai delle leggere goccioline che scendevano lentamente. Il sole era prossimo all’orizzonte, si capiva perchè le nuvole erano diventate arancioni, rosse, rosa trasformando la savana in un’immensa valle colorata. Il silenzio era ancora tra noi, che arrotolate nei nostri shuka Maasai che avevamo ricevuto il giorno prima al villaggio, con gli occhi gonfi guardavamo questo spettacolo aspettando che il sole si affacciasse sulla linea dell’orizzonte.
E poi è successo, un piccolo puntino luminoso è apparso sull’orizzonte, una di noi ha fatto un urletto seguito da un “wooo” di stupore cantato in coro da tutte le altre, e in pochi secondi quel puntino è diventato una striscetta e poi un mezzo sole e nella mia testa riecheggiava la sigla del Re Leone… AAAAAAAAAHHHHHH….
Un’emozione incredibile poter osservare l’intera palla del sole all’orizzonte, senza l’interferenza di palazzi o costruzioni all’orizzonte. Solo una palla rossa di fuoco poggiata su una linea dritta di Terra.
Credevo che quello fosse l’apice di quel momento finchè la guida che sedeva accanto al driver si gira di colpo e indica qualcosa nel cielo con la bocca spalancata. Ci affacciamo allora tutte per scoprire uno degli arcobaleni più grandi visti nella mia vita: uscendo, il Sole aveva illuminato tutto il cielo ancora rosso e aveva creato un arcobaleno di cui era possibile vedere l’inizio e la fine. I miei occhi pieni di lacrime, soltanto un’ora prima stavo rimandando la mia sveglia pensando di voler rimanere a dormire, e un attimo dopo eccomi, la persona più grata del mondo, innamorata di questo pianeta, ad urlare ed esultare di fronte a qualcosa che in fondo non possiamo spiegarci: la vita, gli arcobaleni, il sole e l’Universo!
A quel punto eravamo tutte molto sveglie, avevamo levato gli shuka, eravamo scese in mezzo alla savana a fotografare questo spettacolo ed eravamo pronte ad iniziare davvero questo safari!
Saltiamo di nuovo tutte sulla Jeep e partiamo alla volta di questa spianata naturale, alla ricerca dei big 5: il leone, il rinoceronte, l’elefante, il bufalo e il leopardo.
Bisogna tenere gli occhi ben aperti nella savana perchè gli animali si mimetizzano molto facilmente, incluso un elefante o una giraffa, che per quanto grandi in realtà si fondono con i colori della natura.
L’animale più diffuso nella savana è la gazzella, ci sono tantissime tipologie di gazzelle con forme e colori diversi ma tutte vivono nella stessa maniera: branchi numerosi popolati solo da femmine che vivono sotto la protezione di un solo esemplare maschio. I maschi lottano tra loro per accaparrarsi più femmine. Una storia che mi ha lasciato riflettere sul senso della natura!!
Dopo la gazzella, l’animale più facile da trovare è stata la zebra. Tutti conosciamo questo animale, ma secondo me non ci si rende davvero conto dell’assurdità della natura nell’aver creato qualcosa del genere. Una specie di cavallo a righe perfette bianche e nere, e ci hanno spiegato che non esistono mai due zebre identiche: ognuna ha delle strisce diverse, come fossero delle impronte digitali.
La giraffa poi, ancora più assurda se possibile, con un collo così lungo e un pattern reticolato perfettamente.
Guidavamo all’interno della savana guardandoci intorno e continuando a vedere animali, fermarci, fotografarli, ammirarli, rimanere a bocca aperta per poi proseguire trovando il prossimo animale.
E poi da lontano li vediamo: gli elefanti. Sono un branco, una famiglia, ne vediamo circa 9 e così il nostro driver cambia completamente rotta per andare nella loro direzione. La cosa più divertente di guidare dentro alla savana è che non ci sono strade, non ci sono percorsi, semplicemente si guida senza direzioni preconfezionate all’interno di un parco immenso.
Ed eccoli, ci troviamo di fronte a 9 esemplari di elefanti di ogni età. La più anziana del branco ha circa 40 anni, ed è la matriarca del branco. Infatti gli elefanti hanno sempre la femmina più anziana a guidare il branco. Gli elefanti africani possono vivere fino a 70 anni e hanno una memoria incredibile. Sono tanto simili a noi umani, amici. Ci siamo fermate con le Jeep spente a qualche metro da loro, senza interferire, semplicemente ferme e in silenzio.
Il più piccolo, incuriosito da questo mezzo grande quasi quanto loro, si è lentamente avvicinato ad osservarci e così lo hanno seguito i suoi coetanei. Gli adulti vedendo i piccoli avvicinarsi alle Jeep si sono affrettati a seguirli con il fare protettivo classico dei genitori.
Li osservavo essere elefanti, eppure sembravano così umani con quegli occhietti dolci ed espressivi, le proboscidi curiose che annusavano, si arrotolavano intorno a copiosi fasci di erba per fare presa e poi tiravano su dandosi una mano con un colpetto della zampa anteriore per staccare la zolla di terra e mangiare solo le parti verdi.
Mi guardavo intorno, eravamo completamente accerchiate dagli elefanti che senza la minima paura o fastidio, passeggiavano indisturbati intorno alle nostre Jeep.
Un momento di fusione con quella che è la natura più selvaggia che mai avrei immaginato nella vita di poter vivere. Non pensavo fosse possibile poter condividere uno spazio così ravvicinato e pacifico con delle creature così grandi e selvatiche in uno dei luoghi più wild del mondo.
Eppure, eccomi qua. Tanto incredibile, quando reale.
Il safari è continuato alla ricerca di altri animali, e ne abbiamo visti davvero tantissimi.
Abbiamo osservato una giraffa che lentamente con movimenti fluidi camminava in mezzo alla savana, solitaria. Un branco di circa 20 leonesse che tornavano dalla battuta di caccia notturna e lentamente si sdraiavano sotto ai cespugli per riposare durante il giorno. La possanza delle 20 leonesse con la loro camminata sicura e poderosa. Sapevate che sono le leonesse a cacciare, mentre i leoni maschi se ne stanno la ad aspettare con il compito di proteggere il branco?
C’erano poi le iene che tagliavano la savana camminando insolenti con un fare sempre un pò scazzato. Generalmente erano sole, raramente si vedevano in piccoli gruppetti con i cuccioli. Sono molto simili a dei cani spettinati comunque. Ho un “fan fact” anche sulle iene: sia i maschi che le femmine hanno il pene. BOOM. Come si accoppiano e partoriscono? Tutto avviene all’interno di quel simil-pene. Scioccante!
Poi c’era Pumba, questo nome deriva dallo swahili per dire “scemo”. Nome affibbiato al povero facocero che se ne scorrazza per la savana con la codina all’insù e si pensa avere una memoria a breve termine, rendendolo un pò scemo. Non sono mancati i gruppetti di suricati che, piccoli piccoli, sentendo dei rumori si alzavano tutti in piedi con la loro attezza di circa 30cm, guardandosi intorno per assicurarsi di essere al sicuro prima di tornare a smangiucchiare a terra.
Gli ippopotami poltrivano nell’acqua fangosa dei fiumi lasciando fuori dall’acqua solo orecchie e narici. Ed infine i rinoceronti, difficile osservarli senza dubitare che siano in realtà dei dinosauri.
Che creature assurde si trovano nel mondo amici, e noi viviamo la vita ignari del fatto che in questo preciso istante laggiù in quella distesa verde e rossa tantissimi esseri viventi stanno vivendo la loro vita: ognuno con il proprio scopo, esattamente come noi.
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